Regnare sul Medio Oriente dividendo le comunità
Un mio commento apparso oggi su Il Manifesto
“In una regione in cui saremo sempre una minoranza è giusto e necessario sostenere altre minoranze”. Con queste parole, pronunciate dal ministro degli esteri israeliano Gideon Sa’ar, commentando la notizia della distribuzione di “aiuti umanitari” israeliani alla comunità drusa in Siria, il governo guidato da Benjamin Netanyahu ha ribadito, in maniera quanto mai esplicita, quale sia uno degli strumenti chiave per raggiungere l’obiettivo strategico dello Stato ebraico: rimanere l’attore dominante in tutto il Medio Oriente.
Lo strumento è ben collaudato. E in passato è stato già adottato da altri attori, come la Francia durante l’epoca coloniale: alimentare le divisioni comunitarie in Siria e Libano - gli unici due paesi confinanti che non hanno mai normalizzato i rapporti con lo Stato ebraico - per mantenere questi paesi deboli e frammentati al loro interno lungo le ormai cristallizzate fratture confessionali ed etniche.
Il recente storico accordo tra Damasco e le forze curdo-siriane così come le trattative in corso tra il governo centrale siriano e le elite druse di Suwayda mandano invece un messaggio in controtendenza. Specialmente dopo i massacri di civili alawiti compiuti nei giorni scorsi da parte di milizie da più parti indicate come vicine allo stesso governo dell’autoproclamato presidente Ahmad Sharaa (Jolani).
Da una prospettiva di Damasco, dopo decenni di autoritarismo e 14 anni di guerra civile si tenta ora di ricucire le fratture interne, gettando le basi per la costruzione di uno Stato capace di garantire i diritti - inclusa la protezione - a tutti i cittadini, al di là delle appartenenze comunitarie.
In un Medio Oriente arabo dove lo Stato appare strutturalmente fragile, ostaggio di logiche clientelari e comunitarie, da decenni gli attori esterni hanno gioco facile nel presentarsi, a turno, come i protettori di quella o di quell’altra comunità. Con l’obiettivo di estendere le rispettive influenze in una logica di sfruttamento delle risorse.
Da settimane il governo israeliano insiste nel presentarsi come protettore dei drusi siriani, concentrati nella regione sud-occidentale di Suwayda al confine con la Giordania, distante alcune decine di chilometri in linea d’aria dal Golan siriano, occupato da Israele. Col cambio di regime in Siria, l’esercito israeliano ha immediatamente occupato lo spazio lasciato sguarnito dalle forze siriane: prendendo il controllo della vetta del monte Hermon (Shaykh), dal quale si domina Damasco, ed estendendo la sua presenza fino alla valle del fiume Yarmuk, uno degli affluenti del lago di Tiberiade. Da queste postazioni, Israele guarda ora ai drusi di Suwayda come un potenziale cliente locale per rafforzare la propria influenza a est del Golan, nei territori dove fino a tre mesi fa operavano, col placet dell’ex regime degli Assad, l’Iran e gli Hezbollah libanesi.
L’occupazione militare israeliana del sud della Siria è direttamente collegata all’occupazione in corso nel sud del Libano. Per lo Stato ebraico si tratta di allontanare fisicamente le potenziali minacce provenienti da nord e da nord-est. Seguendo la stessa logica adottata dalla Turchia nel nord della Siria, Israele vuole proteggere il suo interno estendendo il controllo all’esterno dei suoi confini.
Per far questo lo Stato ebraico ricorre a un ampio ventaglio di strumenti. Nella Striscia di Gaza così come nell’estremo sud del Libano si è deciso di fare terra bruciata, colpendo le abitazioni civili, i campi agricoli e le strutture legate ai servizi di base: per spopolare del tutto i territori, per ritardare il più possibile ogni azione di ricostruzione infrastrutturale e, quindi, di reinsediamento di abitanti. Questo approccio è pensato nelle aree dove esiste una forma endemica di resistenza popolare a Israele; dove le strutture armate para-statuali (Hamas, Hezbollah) sono organicamente parte del tessuto comunitario, per cui l’unico modo di vincere il nemico è quello di sradicarlo completamente dalla geografia.
Nel sud della Siria l’approccio adottato è stato finora assai meno hard e più soft. Nessun attacco aereo e di artiglieria per distruggere centri abitati e cacciare la popolazione. Bensì un’occupazione mirata di alcune zone e il controllo (o il sabotaggio) di infrastrutture legate alla gestione delle risorse idriche. Inoltre, gli ufficiali israeliani inviati oltre le linee del Golan interagiscono quasi quotidianamente con gli abitanti siriani delle località della regione di Qunaytra, abitata in prevalenza da arabi sunniti e non da drusi. Diversi testimoni siriani di questi incontri raccontano che i colonnelli israeliani si rivolgono alle élite dei villaggi di Qunaytra e della valle dello Yarmuk parlando correntemente l’arabo. E questo perché sono originari di contesti arabofoni. Tra i suoi ranghi militari, Israele sceglie infatti appositamente ufficiali drusi della Galilea ed ebrei originari delle storiche comunità di Damasco e di Aleppo per negoziare in maniera il più possibile amichevole con i locali delle regioni sud-occidentali siriane.
Finora non ci sono stati segnali di significative aperture verso Israele da parte delle comunità di Qunaytra, che nei lunghi anni del conflitto intestino sono state comunque esposte a periodici contatti con i militari israeliani oltre cortina. A parte qualche caso isolato e aneddotico, anche i drusi di Suwayda hanno finora reagito con freddezza ai corteggiamenti del governo israeliano.
Questi sono cominciati ai primi di marzo, dopo tensioni registratesi a Jaramana, sobborgo di Damasco, tra forze di sicurezza druse e armati governativi sunniti. E si sono intensificati durante i massacri ai civili alawiti della costa siriana. Anche in quel caso, Netanyahu e i suoi ministri hanno detto di esser pronti a “proteggere i drusi”, applicando la stessa logica usata un secolo fa dalle autorità francesi: per esercitare controllo e influenza in un territorio potenzialmente ostile, è bene frazionarlo a livello comunitario. E costruire delle clientele con alcuni gruppi, mettendo gli uni contro gli altri.
In questo senso si rafforza la retorica della minaccia esterna, in questo caso identificata col sunnismo radicale, associato da più parti al nuovo governo siriano. E in assenza di uno Stato forte e capace di assicurare la protezione dei cittadini, si favorisce la logica dell’arroccamento su base identitaria. Dall’esterno ci si propone di intervenire nell’interno politicamente, economicamente e, in caso, anche militarmente: come protettori di quella o di quell’altra “minoranza”.
La recente offerta israeliana di concedere permessi di lavoro ai drusi siriani, che da anni vivono come gran parte della popolazione siriana in uno stato di collasso economico, assieme alla notizia della distribuzione di “aiuti umanitari” israeliani ai drusi di Suwayda si inserisce in questo contesto.